Liquidazione AIRITALY S.p.A.: quali tutele per i lavoratori?
L’11 febbrario scorso l’Assemblea degli azionisti di Air Italy (Alisarda e Qatar Airways attraverso AQA Holding S.p.A.) ha deliberato la messa in liquidazione volontaria della società. Nonostante il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti abbia già predisposto la norma che consentirebbe ai lavoratori di accedere alla CIG per sei mesi (prorogabili), compatibilmente col fondo di solidarietà per il trasporto aereo, i liquidatori sembrano decisi a procedere con il licenziamento collettivo dei lavoratori della compagnia. La situazione impone una riflessione sulle tutele garantite ai lavoratori in caso di licenziamento collettivo, la cui disciplina è pacificamente applicabile anche al caso della cessazione dell’attività aziendale. Infatti anche in ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione dell’attività, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui all’art. 4, comma 9, della l. 223/1991, determina l’illegittimità del recesso e la sanzione del pagamento dell’indennità risarcitoria a carico del datore. Inoltre, permane l’utilità del controllo finale sull’applicazione dei criteri di scelta e sul nominativo dei lavoratori in esubero, posto che anche in tale ipotesi va verificata la possibilità di ridurre le conseguenze della crisi di impresa sui livelli occupazionali. Secondo quanto evidenziato anche di recente dalla Corte di Cassazione (v. ord. 19 giugno 2018, n. 16145) l’art. 24, co. 2, della legge n. 223 del 1991 – norma questa rimasta immutata a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 92 del 2012 – prevede che le disposizioni richiamate nel primo comma, e cioè le norme di cui all’art. 4, commi da 2 a 15 e 15-bis, si applicano anche quando le imprese di cui al medesimo comma intendano cessare l’attività. Com’è noto l’art. 4 citato detta le disposizioni in tema di procedura per la dichiarazione di mobilità, stabilendo al co. 9 che, raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l’impresa ha facoltà di collocare in mobilità gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso. Contestualmente, l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, co. 1, deve essere comunicato per iscritto all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di cui al comma 2. La parola “contestualmente” è stata sostituita dall’art. 1, co. 4, della legge n. 92 del 2012, con le parole “entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi”, mentre l’art. 2, co. 72, della stessa legge ha modificato il primo comma dell’art. 4 della legge n. 223/91 (secondo cui “L’impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all’articolo 1 ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non potere ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare le “procedure di mobilità” ai sensi del presente articolo”), sostituendo le parole “le procedure di mobilità” con le parole “la procedura di licenziamento collettivo”. Il co. 12 dello stesso art. 4 ha disposto poi che le comunicazioni di cui al co. 9 sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza della forma scritta e delle procedure previste dalla stessa disposizione. Secondo l’orientamento prevalente il termine di sette giorni previsto dall’art. 4, co. 9, della legge n. 223/91, come sopra modificato, opera in modo cogente. Non pare revocabile in dubbio che la scelta dell’imprenditore di cessare l’attività costituisca esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall’art. 41 Cost., tuttavia la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivano, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, applicabili alla fattispecie in esame per effetto dell’art. 24 della stessa legge, ed in particolare l’obbligo di comunicazione dei criteri della scelta, hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell’attività dissimuli la cessione dell’azienda o la ripresa dell’attività stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo (cfr. Cass. n. 5516/03; Cass. n. 5700/04; Cass. 15643/05; Cass. 13297/07, la quale ultima ha precisato che l’estensione, ai sensi dell’art. 24, co. 2, della legge n. 223 del 1991, della disciplina prevista in materia di mobilità ai licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo deve essere intesa nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’attività aziendale, e cioè in modo da assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale, in accordo con la ratio della estensione dei detti meccanismi della legge n. 223 del 1991 ai casi di cessazione di attività). Del resto, la Corte Costituzionale (sent. n. 6 del 1999) ha sottolineato che “anche la cessazione dell’attività si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell’impresa sull’occupazione” e ciò in quanto la “messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori”, di talché “essa assurge ad espressione di un principio generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa”, perfino quando tale soppressione sia “operata al di fuori d’ogni procedura”. Secondo la Corte Costituzionale l’assimilazione logica della cessazione di attività alle ipotesi di licenziamento collettivo per “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, è del tutto coerente con i lavori preparatori: infatti il testo approvato originariamente dal Senato conteneva l’espressa previsione della inapplicabilità della normativa in esame all’ipotesi di “cessazione dell’attività di impresa per provvedimento dell’autorità giudiziaria”; ma questa limitazione venne poi soppressa nel testo approvato dalla Camera dei Deputati. Ancora sul rispetto della tempistica delle comunicazioni ai sindacati, deve anche qui richiamarsi l’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, secondo cui, in tema di licenziamenti collettivi, il requisito della contestualità della comunicazione del recesso al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro, richiesto a pena d’inefficacia del licenziamento medesimo, non può che essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido ed analitico, e con termini molto ristretti, nel senso di una necessaria ed ineliminabile contemporaneità delle due comunicazioni la cui mancanza può non determinarne l’inefficacia, solo se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, da comprovare dal datore di lavoro (Cass. n. 1722/09; Cass. 16776/09; Cass. n. 7490/11). Peraltro in tema di licenziamento collettivo (secondo la disciplina antecedente alle modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92), la contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell’elenco dei dipendenti licenziati e dei criteri di scelta, richiesta, a pena di inefficacia del licenziamento, dall’art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, si giustifica al fine di consentire alle organizzazioni sindacali (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo sulla correttezza nell’applicazione dei menzionati criteri da parte del datore di lavoro, anche al fine di sollecitare, prima dell’impugnazione del recesso in sede giudiziaria, la revoca del licenziamento eseguito in loro violazione. Da tali premesse consegue come la funzione di tale ultima comunicazione implichi che non possa accedersi ad una nozione “elastica” di contestualità, riferita anche alla data in cui il licenziamento abbia effetto, dovendosi ritenere irragionevole che, per non incorrere in una decadenza dal termine di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il lavoratore debba impugnare il licenziamento senza la previa conoscenza dei criteri di scelta (Cass. n. 8680/15; Cass. 22024/15).